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La Pubblica Moglie

«Mamma!»
«Mamma!». Sento gli occhi bruciare, gonfiarsi. Ho perso la mamma. Mi guardo
attorno, ma la folla del mercato m'impedisce di vedere. Corro, sbatto nelle gambe delle persone, cado a terra. Sanguino da un ginocchio. Un pollo strilla da una gabbia, salto via impaurita. Qualcuno mi afferra il polso. Non è mia madre, ma una donna alta e magra. Un turbante bianco le nasconde i capelli. Sorride.
«Stai calma» mi dice. Prende una manciata di piccoli frutti, rossi, da uno dei banchi accanto a noi. Me li porge. Esito un attimo, poi li accetto. Mi appiccicano le dita, le labbra. Torna mia madre, mi afferra per l'altro braccio. Le due donne restano un attimo immobili a guardarsi, una bolla silenziosa nel caos della piazza. Infine la donna dal turbante bianco mi lascia andare, e scompare fra la folla. Non ha pagato la frutta.

Apro la porta e me lo trovo davanti. È tornato. Per l’ennesima volta. Dicono che è bello, che ha occhi grandi, braccia forti e una voce come il tamburo. Così dicono.
«Ti piace» mi sussurra mamma mentre lui e mio padre parlano attorno al vino. Dovrebbe essere una domanda, ma lei non ha chiesto. Io, però, lo so cos'ha davvero quest’uomo. Molte vacche e molto oro.
«Va’ di là a farti vedere, anche tu sei molto bella». Mi spinge, poi torna ai fornelli. Lascio la cucina, ma non vado dagli uomini. Esco in strada. Mi perdo ai margini del paese, dove i vicoli diventano sentieri. Si fa notte.

Il turbante bianco appare d’un tratto, sotto le fronde d’un sicomoro. La donna solleva lo sguardo, mi vede. Si stacca dal tronco e s’allontana canticchiando. La seguo. Si ferma all’ingresso di un gruppo di case isolato. Mi aspetta.
«Ti piace perderti» mi dice. Sono passati anni da quel giorno al mercato, ma si ricorda ancora.
«A casa ti staranno cercando» dice.
«Tu non sei sposata?» le chiedo. Dondola la testa.
«Sì e no». Ride. Nel cortile una donna si affanna a caricare cose su un piccolo carretto.
«Oggi hanno portato un uomo per me, per questo sono» mi fermo. Solo ora capisco che sono scappata. Ci sediamo in una stanza della sua casa, un tappeto a terra, odore d'incenso. Dalle altre case s'insinuano gemiti, grida soffocate. Lei indica il cortile, la donna, il carretto.
«Se ne va – mi dice porgendomi del vino – se non vuoi sposarti puoi prendere il suo posto». Mi guardo attorno.
«Cos'è che fate qui?». Il vino è aspro, un serpente mi striscia sulla lingua. Lei butta giù in una volta sola.
«Lo sai quanti uomini ci sono in questo paese?». Non rispondo.
«Settecento – dice – e quante donne?»
«No», dico, e bevo un altro piccolo sorso.
«Trecento. E molti uomini ne sposano più d’una. Noi, allora, siamo le mogli per tutti quelli che rimangono soli». Beviamo per un po’ in silenzio.
«Come si diventa» esito.
«Pubblica moglie? Ascolta». Si versa ancora vino e racconta.

Le gocce mi colpiscono testa, spalle, braccia. La folla scruta mentre mi tingo di rosso. L’anatra sgozzata muore mischiando il sangue che le avanza alla polvere.
Il vecchio si piazza in piedi di fronte a me. Ha un bastone, un occhio bianco e il suo alito puzza di sudore.
«Accetterai tutti gli uomini del paese» dice
«Accetterò tutti gli uomini del paese»
«Per non più di tre monete»
«Per non più di tre monete»
«Anche coloro del tu stesso sangue». Guardo l’anatra. È morta, due uomini se ne stanno litigando il corpo. Sento schioccare uno schiaffo, una bestemmia, vedo esplodere uno sbuffo di piume. Un bambino ride.
«Donna!» grida il vecchio, sollevando minaccioso il bastone.
«Anche coloro del mio stesso il sangue».
Su un lato del cerchio di folla, il gruppo dei giovani grida, canta, pesta i piedi alzando una nube rossa di polvere.
Altre donne vengono da me. Mi imbrattano di argilla e gesso, m’infilano bracciali e cavigliere.
La più anziana estrae da una cesta un lungo panno bianco, me lo intreccia sul capo.

«Vuoi vedere quale sarebbe la tua casa?» chiede. Mentre ci alziamo giunge un urlo da una casa vicina. Lei sparisce nell’altra stanza. Torna con in mano qualcosa che luccica. Un coltello. Esce, e io dietro.
«Ma lei dove va?» le chiedo, mentre cammina furiosa, indicando la donna del carro.
«In città – mi risponde senza fermarsi – Anche lì c'è lavoro».
Quando rientro in casa le guance mi bruciano e sento un dolore fra le costole. Il mio corpo immagina da solo le botte di mio padre. Invece è tutto quieto. Il mio promesso sposo dorme sui tappeti, avvolto dall’odore del vino, che spilla ancora da una coppa rovesciata. Dalla camera viene il pianto stanco di mia madre. La ignoro. Raccolgo le mie cose ed esco di nuovo.

Al carretto ora è aggiogato un cavallo. Entro nella casa della donna dal turbante bianco. La tela è disciolta sui cuscini, il coltello caduto sotto al tavolo. Non c’è sangue sulla lama. Dall'altra stanza viene il profondo russare di un uomo.
Torno fuori. Nel cortile la donna sta salendo sul carro.
«Posso venire con te?» le chiedo.




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